Crisi della Fotografia, di Italo Zannier

Crisi della Fotografia

È stato Ugo Mulas a sintetizzare in Italia, più efficacemente di altri, l’incipiente crisi della fotografia classica (istantaneità-nitidezza, documentazione verosimile, pittorialismo, ecc.) tra il 1971 e il 1972, con le sue quattordici “Verifiche”, tese allo studio dell’identità ontologica della fotografia stessa, dopo la passione neorealistica e il successo mediatico del fotogiornalismo. La televisione ormai resa popolare, oltretutto, stava conducendo anche la fotografia, nel suo storico divenire, verso altri orizzonti, mentre anche la pittura-pittura stava entrando in “crisi”. Si cominciò allora a definire con il termine “concettuale” anche l’opera di molti fotografi, ai quali sembrava fosse stato sottratto l’antico senso della fotografia come “documento”.

Una prioritaria garanzia, “ha fotografato la situazione”, rimase un’energica figura retorica. Invece cercarono, anche nella fotografia, soprattutto l’allusione metaforica, come già aveva fatto Piero Manzoni, nei primi anni Sessanta, con le sue famose scatole “d’artista”, d’impronta neodadaista. Mulas in effetti costruì una barriera fra due epoche della vassalla fotografia nel suo divenire storico, accanto – ma sia ben chiaro filologicamente -, a coeve esperienze e ricerche, come quelle di Franco Vaccari, in primis, che si prolungarono soprattutto nel magistrale Luigi Ghirri (ma anche nel Corso Superiore di Disegno Industriale di Venezia – 1960 /1970 -, era in precedenza già avviata un’analoga riflessione, com’è documentato in alcune pubblicazioni pionieristiche – in “Foto-Film”, giugno 1963, ad esempio -, dove compaiono tra le altre alcune opere “concettuali” di Guidi e di Cresci, già in un’atmosfera di “Verifica” linguistica della fotografia).

Detto questo, penso al lavoro svolto in questi ultimi decenni, con silenziosa tenacia, da Stefano Tubaro, a sua volta teso a sottrarsi all’antica idea di fotografia testimoniante, scegliendo invece coraggiosamente un percorso più attuale, in un’atmosfera che possiamo a sua volta definire concettuale e, perché no, filosofica.

Tubaro ha subito intuito che la fotografia è inevitabilmente in linea con le altre forme espressive figurative, la grafica soprattutto, e persino i suoi primi controluce “di strada”, e poi i notturni illuminati “artificialmente”, con l’aggressivo colore fluorescente, così esplicitamente kitsch, sono infarciti da questa convinzione, che l’immagine è immagine e basta; ciò che conta è il messaggio, che può evidenziarsi anche oltre l’esplicita narrazione descrittiva.

E oggi – con le sfolgoranti “nature morte”, che sembrano paesaggi alieni, scenografie d’Atlantide piuttosto che di Marte -, Stefano Tubaro avanza ansiosamente in questa sua ricerca, che si spera continui, perché è lì che egli trova la ragione della sua identità di fotografo. Di fotografo che a sua volta è in crisi, come lo era stato Ugo Mulas; una crisi che oggi deriva, non più o non tanto dall’imperante iconografia della televisione, ma dalla nuova era del “digitale”, che offre sogni insperati, che nel loro eccesso però, obbligano comunque a considerare sempre l’immagine – anche la singola immagine – per la sua qualità “estetica”, per la sua valenza comunicativa, che si effettua soprattutto nella sua capacità di essere metaforica di un concetto, di un’idea. Anton Giulio Bragaglia, che cercò per primo di esprimere “un’idea, un concetto” (quello del “tempo”) con la fotografia, nel 1912 scriveva che, “con i mezzi della meccanica fotografica si può fare dell’arte solo se si supera la pedestre riproduzione fotografica…”.

Ugo Mulas, sessant’anni dopo aveva aggiunto, a proposito dell’opera per lui magistrale, di Ray e Duchamp, che “l’intervento dell’artista era del tutto irrilevante sotto l’aspetto operativo, consistendo nell’individuazione concettuale di una realtà già materializzata che bastava indicare perché prendesse a vivere in una dimensione ‘altra’… ”. Questa dimensione “altra” è cercata da Stefano Tubaro mediante un assemblaggio iconico, nelle sue accattivanti, scenografiche “controfigure”, compilando insiemi di oggetti simbolo, come un uovo, una candela, un libro, un tozzo di pane, un mattone…, coinvolti in elementi e cromatismi anomali, che nella definitiva fotografia dialogano quindi teatralmente con lo spettatore, nell’ambiguità silenziosa di questo genere d’immagine.

Alla fotografia, a tutte le fotografie, non va chiesto nulla più di quanto noi riusciamo a percepire, con la nostra inevitabile, sebbene varia sensibilità, che è infine “cultura”.

Anche per Stefano Tubaro, “la ‘modernità’ – come ha scritto Giuseppe Turroni proposito di Mulas, nel 1959, “è un modo di entrare nelle cose, di osservarle in una prospettiva essenziale”; qui nella ricerca, nello studio, come Tubaro afferma, “di oggetti simbolici appartenenti alle tradizioni e alla cultura delle antiche civiltà”.

Nel segno comunque di una nuova “crisi” della fotografia.

Italo Zannier 

(testo di presentazione nel catalogo della mostra “Controfigure”, Artestudio Clocchiatti, Udine 2004)